Lo storicismo di Luigi Russo: lezione e sviluppi (1981)

Lo storicismo di Luigi Russo: lezione e sviluppi, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 87°, s. VIII, n. 1-2, Firenze, gennaio-agosto 1983, pp. 52-62, e in Aa. Vv., Lo storicismo di Luigi Russo: lezione e sviluppi, Atti del convegno svoltosi a Pietrasanta nel settembre 1981, Firenze, Vallecchi, 1983; poi in W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri scritti di metodologia, cit. Il convegno, presieduto da Binni, curatore anche degli Atti, fu aperto dalla sua prolusione.

LO STORICISMO DI LUIGI RUSSO: LEZIONE E SVILUPPI

Prendere ancora una volta, qui a Pietrasanta, la parola su Luigi Russo (lo feci già con un discorso funebre, di fronte alla sua salma, lo feci all’inaugurazione del Premio Russo nel ’67) ad apertura di questo convegno a lui dedicato, è certo per me un gradito onore dovuto alla mia qualità di suo piú antico scolaro (da quando nel 1934 egli iniziò il suo magistero all’Università di Pisa, dove io, già allievo di Momigliano, mi laureai con lui nel ’35 con una tesi, La poetica del decadentismo, cosí legata a forti stimoli ed elementi della sua metodologia e da lui promossa alla pubblicazione), ma è insieme per me causa di profonda commozione, particolarmente ora che, riconsiderando la mia lunga vita, ancora meglio prendo coscienza di quale debito essa abbia contratto (ma fra tante lezioni di maestri reali e ideali in campo letterario e civile) particolarmente con Luigi Russo. E non solo con il suo insegnamento e la sua opera, ma con la sua viva, irripetibile sostanza umana e personale, nella lunga abitudine di incontri, di scambi epistolari, di visite a lui nella sua casa fiorentina ed anche nell’ultimo periodo della sua vita, qui a Marina di Pietrasanta. Quando egli vi si trasferí e visse, sempre proseguendo la strenua lotta del lavoro e della militanza civile, fra intensi movimenti di ira e malinconia per la solitudine maggiore in cui venne a trovarsi: come egli scrisse con parole intensissime (e ben valide ad introdurci nel suo stile e in una delle pieghe e articolazioni piú schiette ed alte): «“Due fere donne, anzi due furie atroci / tor non mi posso, ahi misero, dal fianco: Ira e Malinconia”. Questi sono i versi che spesso mi ripeto, di uno dei miei poeti preferiti, l’Alfieri, e la solitudine alla quale mi sono volontariamente condannato (per sconto dei peccati miei) forse mi accresce nell’immaginazione il pericolo di una sempre piú irreparabile rovina» (1960). Anche se egli trovò molti compensi a quella solitudine e a quel sentimento catastrofico (di origine non solo autobiografica: la scomparsa di tanti maestri, amici carissimi, ma nazionale e cosmica: il peso del regime clericale e conservatore, la sudditanza italiana a una superpotenza straniera, la guerra fredda e l’incombere della guerra atomica) nella singolare bellezza di questi luoghi (fra la contemplazione propizia del mare, o limpido, o tempestoso quando montalianamente «livido cambia colore», delle fresche e vitali pinete, del mareggiare pietrificato delle Apuane) e nella generosità e schiettezza di amicizie e di consuetudine con la gente colta di questa civilissima Versilia e magari con la «povera gente» (per riprendere le parole in questo periodo da lui usate a meglio ancora designare il suo piú congeniale scrittore, il Verga, come «poeta della povera gente»): quella povera gente di cui egli nel lungo sviluppo, anche tormentoso, della sua concezione e milizia etico-politica aveva fatto propria, in quest’ultimo periodo, la causa con intenso e lucido appassionamento. Sicché in me (come del resto certo in tutti gli amici qui convenuti) si sommuove un’intensa onda affettiva, promossa da questa occasione e dalla folla di ricordi malinconici e vitali di una personalità cosí originale, inconfondibile, potente e sin prepotente e insieme cosí schiettamente umana e generosa. Ché non è facile sopprimere, parlando di lui a vent’anni dalla sua improvvisa scomparsa, il riaffiorare del trauma lacerante che essa provocò, escludere il ritorno assillante del vivo ricordo della sua stessa esuberante presenza fisica fino alla statura e struttura gigantesca e possente, dei tratti del volto, vigoroso ed aperto, mobile fra moti tempestosi e malinconici e impeti di vitalità fino all’intreccio di ironia, di ilarità aperta, di severità e affabilità, della sua voce potente e affettuosa, del suo discorso colloquiale, trascorrente, con una vena e disponibilità inesauribile, dai toni seri e severi quando parlava di problemi di studio e di politica alle battute ora scherzose ora ferocemente sarcastiche su uomini e argomenti della vita letteraria e civile del nostro paese, senza che mai allo scherzo e al sarcasmo penetrante e fulmineo subentrassero malignità e cattiveria, dato che ogni persona attaccata non lo era solo nella sua individuale sostanza cosí ben compresa, e icasticamente definita, ma soprattutto nella tendenza che rappresentava e che Russo combatteva.

Ricordo dell’uomo e commozione che non ritengo improprio o solo emotivo aver qui espresso, come una aggiunta insopprimibile del mio e nostro rimpianto dell’uomo che amammo e che ci amò, mentre a nome di tutti rivolgo un saluto schietto ai suoi figli e un devoto pensiero di omaggio alla sua fedele e nobile compagna, all’apertura di un convegno che, viceversa, intende essere non un’agiografica commemorazione, ma un’azione di cultura, uno studio storico e critico della sua personalità, della sua opera, della sua importanza culturale nel tempo storico in cui egli visse ed operò, della sua eredità di elementi e germi ancor vivi e fecondi, sia nel campo della metodologia, critica e storia letteraria, sia in quello, in lui indissolubilmente connesso, della sua attività di intellettuale militante in campo civile ed etico-politico.

Del resto, anche in questo movimento umano di inesausto rimpianto, subito ci riporta al tono piú proprio di questo convegno e al centro del nostro dovere e intento di farne un momento di studio e di verifica scientifica e storica della «validità» critica e culturale ed etico-politica del nostro Maestro, e non ad un incontro commemorativo di scolari ed amici, proprio l’adesione che al Convegno, per la sua intrinseca importanza culturale, hanno dato massimi rappresentanti della Repubblica (a cominciare dal suo Presidente), del Governo e del Parlamento, dell’Accademia dei Lincei e delle Regioni Toscana e Sicilia, del Rettore dell’Università e del Direttore della Normale di Pisa, in concorde unione al di là di ogni distinzione, politica e ideologica (Russo appartiene sí ad un certo settore ben preciso della cultura, vive ancora entro la lotta per cui è vissuto e ha operato, ma ormai ben appartiene a tutta la cultura del nostro paese e alla sua storia di cui costituisce un momento di valore essenziale), ma fra queste adesioni soprattutto, l’adesione che ha dato al nostro Convegno il piú grande poeta di tutto il ’900 non solo italiano, Eugenio Montale, che, nella prevista impossibilità, per ragioni di salute, di partecipare di persona al convegno (come egli fece invece al primo premio Russo del ’67), ha inviato a me in luglio, a due mesi dalla morte, una breve lettera, un biglietto, dettato poco prima del suo ricovero in clinica, breve, ma estremamente significativo nelle sue parole tutte meditate ed essenziali, secondo i modi piú propri a quel grande poeta, intellettuale e critico di cui soffriamo ancora, con profondo dolore, la scomparsa cosí lacerante e vicina: «Milano 9 luglio, Caro Binni, scusa se con ritardo posso rispondere alla tua, ma tutto questo per ragioni di salute. Anche io ho conosciuto Luigi Russo e ho condiviso gran parte delle sue opinioni letterarie. Vi faccio tanti auguri per il successo di questo convegno che dimostra la persistente vitalità di un Maestro che tutti ricordiamo. Credimi con i piú cordiali sentimenti il tuo Eugenio Montale».

Mi pare infatti estremamente significativo non solo il richiamo alla «conoscenza» di Russo da parte di Montale da collegare con un fervido e acuto suo scritto del ’62, in «Belfagor», e soprattutto la dichiarata sua consonanza con «gran parte delle opinioni letterarie» di Russo, ma il fatto che già di per sé l’iniziativa di questo convegno venga da Montale riconosciuta come la dimostrazione della «vitalità di un maestro che tutti ricordiamo». Proprio la vitalità di un Maestro ricordato da tutti o che da tutti dovrebbe essere ricordato. Non si poteva dir meglio e con maggiore autorevolezza. Tanto piú che da parte di Russo, e a riprova della lucidità e della decisione del suo acuto sguardo critico, proprio Montale (nel paragrafo sulla poesia novecentesca nel Compendio della storia letteraria d’Italia, scritto subito prima della morte e uscito postumo nello stesso anno 1961) viene nettamente considerato come «il migliore poeta contemporaneo»: e non è cosa scontata, se si pensa che in quegli anni era viva ancora la querelle circa il primato di Ungaretti o Montale, querelle in apparenza inutile, futile, ma in realtà ben importante per tutta l’interpretazione del senso della grande poesia, della linea poetica e della Weltanschauung e della storia anche culturale e poetica del Novecento (non a caso Russo rilevava anche come il successo di Montale fosse stato a lungo contrastato). Poi, alla fine del paragrafo a lui dedicato con tanta sicurezza del suo fondamentale valore poetico, Russo conclude con questo periodo ben importante a chiarire, in chiave tipicamente sua, una delle radici essenziali di tale riconoscimento: «Egli è inoltre un critico notevolissimo della letteratura e anche questo lo differenzia dai poeti contemporanei i quali nella loro polemica rottura con la tradizione spesso tagliano anche ogni radice culturale»: che di per sé aprirebbe già un lungo discorso sul metodo critico di Russo e sullo stesso suo vivo rapporto con il proprio secolo, perché, a ben vedere, lo storico militante di tutta la letteratura italiana «da Dante ad oggi» (quale egli volle divenire intorno al ’21-22) nasce dal critico militante nel suo tempo (si pensi al Verga del ’19 e al contemporaneo saggio Il tramonto del letterato a favore di una letteratura realistica e impegnata nella battaglia letteraria-civile proprio nel tempo contemporaneo). Sicché ben si capisce come egli, dall’altezza della sua viva e completa esperienza, potesse avvertire della loro insufficienza nei confronti della stessa letteratura contemporanea i semplici e puri «modernisti», i critici «solo del presente», i quali cosí (mancando di una esperienza vera del passato, della letteratura nel suo lungo e complesso sviluppo) male possono comprendere gli stessi autori contemporanei, cosí inevitabilmente legati alla letteratura, alla cultura precedente anche quando piú se ne fanno consapevoli rinnovatori, trasformatori e persino eversori.

Proprio la lettera di Montale ci riconduce dunque, con quella sottolineatura della vitalità del Maestro Russo, al senso, ai motivi, alla prospettiva, ai modi di organizzazione del nostro convegno che in questa breve introduzione merita soprattutto di essere illustrata da parte mia anche se poi brevemente non potrò non intervenire – in modo del tutto personale ed esposto al dibattito che potrà anche avvenire fra di noi – nella tematica del convegno soprattutto in funzione del senso che ha il richiamo del titolo di questo allo storicismo di Russo e alle sue reali e possibili lezioni e sviluppi, mentre rimando, per un articolato disegno di tutta l’attività critica e metodologica di Russo da parte mia, al saggio che scrissi nel ’61, dopo la sua morte, per un numero dedicato a lui da «Belfagor», aperto appunto da un saggio di Flora sull’Uomo, da quel saggio mio e da un saggio di Eugenio Garin sulla importanza di Russo nella cultura fra le due guerre.

Quanto al motivo di fondo del nostro convegno, esso corrisponde alla nostra intenzione di riproporre l’opera di Russo e la sua validità, da noi considerata alla distanza di venti anni dalla sua morte: e quali anni! densi di avvenimenti storici, sociali, politici e letterari di estrema incidenza e pieni di dissacrazioni, di revivals; di ingresso e scomparsa di temi e personalità, di metodi nuovi variamente autentici o effimeri, vistosi o sostanziosi, che hanno provocato una crisi nella stessa cultura e critica di sinistra, che piú si ricollega alla vasta raggiera culturale e critica in cui emerge l’opera di Russo. Appunto la volontà di riproporne (con forza persuasa e insieme con l’avvertenza proprio da lui enunciata dei «limiti storici» di ogni personalità e persino delle piú alte) il significato nella situazione storica in cui egli operò, la singolarità eccezionale di una personalità che non fu, volta a volta, solo un metodologo, solo un critico e uno storico letterario, ma insieme a ciò fu un intellettuale militante, un polemista etico-politico, un educatore, un formidabile organizzatore di cultura (specie con le sue riviste e soprattutto con l’invenzione geniale di «Belfagor»), e di verificare concretamente ancora una volta il suo valore, la sua tenuta nel presente, non della sua totale e immediata attualità, ma dell’importanza di germi fecondi che derivano dalla sua opera e del significato che essa ha, come di un punto di riferimento, tanto piú importante nella presente condizione di moltiplicazioni e proliferazioni di prospettive e metodi fino ad un certo possibile smarrimento e confusione nella perdita di criteri di valori di fondo, e per un richiamo alla storia (mentre se ne proclama addirittura la morte) e ad una figura del critico e dell’intellettuale che, se non può coincidere interamente con quella da lui storicamente proposta, rappresentata ed esercitata, può e, a mio avviso, deve pur risentire della direzione centrale da lui cosí altamente impostata e vissuta nel senso di un dovere di impegno militante, di attore e non spettatore neutrale ed asettico, di vivo nesso fra militanza critica e militanza civile (seppure in modi nuovi e diversi entro un nuovo e difficile contesto storico, culturale e politico). Mentre egli mi pare insieme, e indissolubilmente, un punto di riferimento (non il solo, ma certo il piú importante e duttilmente collegato ad una linea centrale della nostra critica e cultura che fa capo a De Sanctis, che si appoggia a Gramsci) per lo stesso senso e valore della poesia e della letteratura, non divertimento superfluo e ozioso o miracolo o unico valore autentico della vita, ma forza necessaria alla vita e alla storia degli uomini e contributo fecondo a tutte le altre forze cui è collegata fin dal suo nascere.

Ecco: poesia e storia, il loro valore, il loro vivo collegamento, costituiscono il senso della importanza di Russo, nella sua posizione storica e come punto di riferimento nel nostro diverso presente. A tale motivazione (e, si badi bene, non si tratta di un recupero dal vuoto: i libri di Russo circolano, la sua opera è studiata, il suo stile e la sua stessa polemica etico-civile è oggetto di interpretazioni recentissime) si salda l’impianto del nostro convegno.

Esso si articola, dopo gli interventi di questa mattina dedicati all’uomo e ai miti suoi piú personali e autobiografici (grande «personaggio» quasi di tipo verghiano e alfieriano si direbbe, se l’uso sconsiderato di tale termine in una specie di mondo-teatro non lo sconsigliasse, e dunque meglio grande e originalissima personalità, dotata di una sua forza centrale dirompente, tutt’altro che irrazionale e priva di una sua tensione orientata anche nel commercio con gli uomini e con gli avvenimenti), nella serie di interventi a Pisa (dove sarà impossibile non ricordare il professore-maestro, la sua pedagogia incarnata nell’esercizio critico e metodologico attuato anzitutto nelle lezioni universitarie, né dimenticare l’opera rinnovatrice del suo Rettorato e della sua direzione della Scuola Normale di cui era stato allievo fra i piú eccezionali), e nelle sedute successive, ancora qui a Pietrasanta, dedicate a trattare temi e problemi centrali della sua critica e metodologia, a saggiare la vitalità e validità delle sue proposte metodologiche, delle sue interpretazioni di autori e settori storici, scelti strategicamente fra i suoi piú significativi, e insieme la stessa figura dell’intellettuale e la versione sua di tale ruolo, che infine viene riproposto particolarmente nella tavola rotonda sul polemista che, presieduta da Pietro Ingrao (uno dei politici attuali piú colti, e vecchio ideale allievo ed amico del Russo scrittore sull’«Unità» proprio quando era diretto da Ingrao), salderà e amplierà il reticolo delle varie e connesse direzioni dell’attività russiana con quella appunto del polemista e intellettuale etico-politico, senza di cui non si potrebbe capire lo stile stesso del polemista ma anche lo stile intero e complesso del Russo (né a caso alla tavola rotonda partecipano uno specialista dello stile e linguaggio di Russo e uno specialista delle forme particolari della polemica di Russo), né si potrebbe capire la stessa critica letteraria di Russo e la sua storiografia cosí legata ai problemi della nostra storia nazionale e del presente in cui questa si ripresentava a lui con una continuità tutt’altro che lineare e tale da lui ben avvertita, vissuta e sofferta, nell’angolatura particolare del suo personale storicismo. Proprio lo storicismo di Luigi Russo è il titolo che abbiamo dato al convegno, perché tale non è solo l’insegna da lui stesso sempre sostenuta (tanto che egli parlava del suo «storicismo costituzionale»), ma, appunto (secondo queste sue parole), la posizione riassuntiva e centrale che di lui e della sua intera attività caratterizza profondamente l’ispirazione e la collocazione storica. Storicismo militante, integrale e assoluto (com’egli diceva) e diciamo ancora storicismo concreto, agonistico, a fondo drammatico, che raccorda la sua critica, la sua metodologia, la sua militanza nella letteratura e nel campo etico-civile e pedagogico, i caratteri del suo stile, la stessa sua visione del mondo, ogni aspetto della sua lotta, gli stessi modi della sua esperienza e del suo svolgimento.

Ciò dicendo si afferma (e se ne offre ulteriore verifica) il nucleo della vitalità della sua opera, ma solo qualora appunto ben si comprenda il forte carattere originale, personale e la peculiarità intrinseca del suo storicismo rispetto al piú generale storicismo idealistico e la sua netta differenziazione da ogni versione storicistica di tipo olimpico e in realtà metastorico come sostanzialmente finí per essere quella crociana, e da quella di uno storicismo minutamente lineare e giustificazionista, cosí come legato ad una prospettiva teleologica e provvidenzialistica (quella che ha finito, per pigrizia di discernimento storico, per provocare un generale sprezzante rifiuto e condanna di tutta la complessa e ricca raggiera dello storicismo nella sua presunta totale «miseria», secondo il famoso titolo di un libro di Popper, da intendere bene prima di estenderla indistintamente).

Proprio lo storicismo di Russo, quale concretamente si configurò ed operò, si presenta invece cosí concreto, cosí sanguigno e denso di succhi realistici, cosí a fondo drammatico, sostenuto certo dalla persuasione di una tendenza e di valori ben saldi da affermare, ma non suscettibile dell’accusa di un aggancio univoco e prefissato e ad una meta sicura della storia, sempre esposto com’è alla lotta, sempre antidogmatico e aperto (e non eclettico però) alla discussione e al dibattito, sempre cosí agonistico, ricco di disponibilità a incontri e scontri con altri metodi, scelte e direzioni, bisognoso anzi talmente di attrito concreto con movimenti e problemi nuovi da costituire, in qualche modo, proprio l’opposto della piú generica e squalificante nozione di uno storicismo «invertebrato», livellante ogni svolta e ogni scossa problematica del passato.

Anzi lo storicismo di Luigi Russo, dopo aver promosso in forme piú direttamente crociane, il suo svincolamento giovanile dal positivismo, opera dall’interno dell’idealismo di Croce e Gentile rafforzandone e forzandone – in un acuto e originale uso dei due sistemi – i piú adoperabili punti e spunti storicistici, tendendo al massimo il ricavo che da questi se ne poteva trarre. E in realtà (né solo nell’ultimo periodo della sua attività, quando la scoperta delle genuine consonanze con Gramsci e il piú forte recupero della lezione desanctisiana si intreccia allo scontro diretto con Croce e con il suo distinzionismo antistorico e metafisico fino all’accusa del ritorno di questo alla critica delle bellezze e dei difetti, ma in maniera piú generale in tutta l’attività matura di Russo), questi e il suo storicismo sostanzialmente avviano e accelerano la rottura del cerchio idealistico crociano e gentiliano e cosí – pur in un innegabile ingorgo, pur prova del suo tormentato movimento tutt’altro che placido e lineare come avverrebbe nel detentore di una sicura linea immutata e sterilizzante – di fatto, anche sotto la stessa ribadita fedeltà ai maestri Croce, Gentile, ma soprattutto al De Sanctis, Russo vive, soffre, rappresenta e contribuisce alla crisi dell’idealismo e dello storicismo idealistico vero e proprio, e, a ben vedere, e pur senza forzare le cose agiograficamente con proiezioni e fughe in avanti, avvia certamente un processo di rottura e di sbocco che si concreterà poi, al di là di lui, su di una linea che, entro successivi contesti culturali e storici ed altra problematica e ad opera di altre personalità (né a caso alcune di queste saranno di antichi suoi scolari), si è definitivamente portato del tutto fuori dell’idealismo e ha elaborato una prospettiva di metodologia e di critica a base storica e con recuperi e sviluppi di altra precisa origine ideologica (materialistica dialettica o senz’altro materialistica).

Sí che poi (come già lo sviluppo rinnovatore di questa linea, il cui avvio è promosso dall’opera di rottura di Russo, rispose a istanze della Stilkritik e del sociologismo contenutistico) a livello attuale può essere persino considerata e usata da altri successivi critici e metodologi a rispondere, non solo in opposizione, a nuove istanze di tipo strutturalistico o semiologico o a piú rinnovate e diverse istanze sociologiche. E ciò solo ad indicare quella che mi pare una via di continuità-novità piú particolarmente sollecitata (se pur non solo da essa) dall’operazione traumatica del Russo nel contesto della sua storia personale e della problematica del suo tempo.

Di questa operazione traumatica (la cui ricostruzione minuta è tutta ancora da fare piú capillarmente), e che tanto suggerisce di fronte alle frivole, effimere squalifiche di tutto lo storicismo entro una ben grave liquidazione della storia (che sembra indicare piú generalmente l’effettivo ritorno a forme irrazionalistiche e variamente mistiche in questo basso impero della civiltà e cultura del tardo capitalismo e della crisi della cultura di sinistra pur nel suo importante sforzo di nuove prospettive per ora spesso assai confuse e contraddittorie), di quest’operazione traumatica, dico, basti qui, in questa introduzione al convegno, rilevare alcuni punti e modi fondamentali, che possono pur contribuire a lumeggiare meglio la stessa complessità e fertilità della personalità e dell’opera del Russo, sostanziale oggetto del nostro attuale studio e dibattito.

Anzitutto proprio al centro della sua attività ed opera, la tendenza fondamentale di una lotta culturale e critico-metodologica, di una milizia attiva che abbraccia tutto il campo della critica, metodologia e cultura civile e nazionale, la tendenza, la volontà di impegnarsi a favore di un rinnovamento generale e specifico della cultura e della critica italiana (sicché la critica stessa è sentita come strumento di tale rinnovamento e collaborazione a un «cambiare le cose» nel loro stesso terreno e nella relazione con altri campi, non come degustazione descrizione specialistica o documentaristica-erudita di una letteratura e poesia che sono invece sentite come vivo corpo del mondo di idee, di problemi umani e storici). Tendenza che – nell’aggancio alla feconda tradizione meridionale (Croce, Gentile, ma al fondo Vico e soprattutto De Sanctis) che Russo vede poi come superiormente invitata a fondersi con altre tendenze, intraviste ma certo meno indagate da Russo e del resto meglio emerse piú tardi rispetto alla situazione storica di Russo – preme fortemente su di un impegno totale a favore della cultura e letteratura realistica e trasformatrice, a sostegno della proposta di una figura del letterato antiletterato e dell’intellettuale scrittore mai gregale e protetto nei suoi rapporti con il potere, in opposizione a una lunga tradizione di cultura e particolarmente di letteratura e di critica evasiva, «asettica» e di fatto portatrice – dalla Controriforma e dal gesuitismo in poi – di reazione, di ipocrisia cortigiana, di machiavellismo deteriore: machiavellismo ben diverso da quella «malizia dell’intelligenza» demistificante, che Russo individuava in Machiavelli e di cui avrebbe fatto simbolo della sua tendenza e del suo complesso comportamento polemico pedagogico nel titolo della sua rivista «Belfagor» e nella sostanza della sua polemica laica cosí vigorosa e coraggiosa di storicista impegnato in un preciso versante della tradizione e del presente.

Ed è dallo storicismo integrale, assoluto, concreto di Russo, che traggono alimento le sue nozioni originali metodologiche di poetica, di sociologismo lirico-simbolico, di politicità trascendentale dei poeti e scrittori, dell’umanità-forma nella quale ultima, a mio avviso, si coglie la formula piú pregnante e basilare del Russo e la sua piú diretta risalita alla grande lezione desanctisiana, al cui «ritorno» egli non mancò di consonanza, piú che con Gentile, con Gramsci, il quale (mentre alimenta la sua tesi dei nepotini di padre Bresciani con saggi e attacchi russiani contro i letterati asettici e di origine gesuitica o, nella interpretazione di ben diversi autori come Abba, la sua stessa linea di una letteratura nazionale popolare) indica in un passo dei Quaderni dal carcere la viva presenza del Russo appunto in quel ritorno a De Sanctis che Gramsci riteneva fondamentale per la critica e per la figura dell’intellettuale in divergenza dalle posizioni del Croce (e anche del Gentile) affermando in frasi significative come quella che qui si legge: «la preoccupazione nazional-popolare nell’impostazione del problema critico-estetico e morale-culturale appare rilevante in Luigi Russo (del quale è da vedere il volumetto sui Narratori) come risultato di un ritorno alla esperienza del De Sanctis dopo il punto d’arrivo del crocianesimo» (Quaderni dal carcere, III, p. 2197).

Mentre Gramsci cita il vigoroso e bellissimo libro di Russo su F. De Sanctis e la cultura napoletana (II, p. 1288) come particolarmente utile (e quindi essenziale come stimolo) «anche per vedere come la tradizione meridionale abbia col De Sanctis raggiunto un grado di sviluppo teorico-pratico di fronte al quale l’atteggiamento del Croce rappresenta un arretramento senza che l’atteggiamento del Gentile, che tuttavia piú del Croce si è impegnato nell’azione pratica, possa giudicarsi una continuazione dell’attività desanctisiana per altre ragioni».

Ritengo non inutili queste precise citazioni da Gramsci (fra le molte altre che testimoniano la sua attenzione viva per il Russo: quella alle sue riviste, «Leonardo», «Nuova Italia», nel campo dell’informazione-formazione critica e dell’organizzazione della cultura, o quella, metodologicamente centrale, circa Dante e il suo poema, la nuova anticrociana valutazione della struttura-poesia certo usufruenti in maniera esplicita e implicita la precisa e preminente sollecitazione russiana) a confermare un nesso Russo-Gramsci cosí importante e pur chiamato in causa da un recentissimo articolo su Russo, singolarmente commemorativo, di Edoardo Sanguineti che (in maniera alla fine assai «gesuitica»: evincere frasi dal loro vero senso, contesto e complessità) mira a ricacciare Russo nel pieno del crocianesimo, seppure di sinistra, soprattutto liquidando il fecondo rapporto ideale e concreto fra Russo e Gramsci e liberando Gramsci del possibile «inquinamento russiano».

Fra le nozioni metodologiche ricordate spicca anzitutto quella di poetica – da lui adoperata fin dal 1926 – accanto all’uso che ne faceva il delollisiano Domenico Petrini e in un’accezione sua ben studiata anche recentemente da un valido allievo di Russo, Sergio Antonielli, nel saggio su Luigi Russo e lo storicismo (in «Belfagor» del ’79: l’amico Antonielli è assente da questo convegno per ragioni di salute e noi gli inviamo gli auguri piú fervidi e affettuosi), e anche da lui diversificata dalla nozione fenomenologica di Anceschi e dalla mia che pur nasceva nel ’36 con la Poetica del decadentismo su sicuri stimoli russiani, anche se poi diversamente svolta e organizzata. Con tale nozione (l’humus da cui nasce la poesia) egli, seppure con innegabili scarti e oscillazioni, introduceva nell’idealismo crociano, nello storicismo idealistico vero e proprio, un elemento assolutamente con quello incompatibile (e perciò dal Croce duramente attaccato), sempre in accordo con la sua ispirazione e volontà di considerazione del valore della poesia come collegato al mondo ideale degli scrittori e quindi alla loro complessa storia e alla storia complessa di tutti gli uomini. Mentre con la nozione di sociologismo lirico-simbolico (avvalendosi di elementi dell’attualismo di Gentile di cui però ripudiava «l’esaltato grigiore di poesia», come diceva dell’interpretazione gentiliana delle Operette morali) egli si apriva la strada (dentro e piú veramente di là del Croce e alla fine di Gentile) verso una possibilità di ricostruzione della storia letteraria non risolta in monografie monadisticamente isolate dei singoli scrittori, ma salvando sempre il momento concreto della poesia. Poi con quello di politicità trascendentale, propria di ogni vero poeta e scrittore (ed è il segno della sua forza e del suo sforzo di vincere dall’interno le preclusioni idealistiche crociane in ciò che han di piú antistoricistico), egli recuperava il senso politico della letteratura e dei poeti (sempre contro il puro letterato evasivo e neutro – ma in realtà reazionario – politicamente) insieme esaltandone (fino ad un limite persino discutibile) la superiorità, in quanto poeta e scrittore, alla faziosità dei semplici contenuti in quella specie di iperuranio, la «patria celeste» dei poeti (per cui «la poesia è il fiore che nasce sulla terra e sboccia nel cielo»), la cui proiezione estrema è pur segno dell’enorme valore dato dal Russo alla poesia proprio mentre ne dimostrava la intrinseca politicità.

Infine, con l’umanità-forma, ancor piú incisivamente Russo riprendeva il De Sanctis nella sua scorciatoia ardua (ma da ben comprendere nel suo significato «tal contenuto tal forma») e postulava cosí per i poeti, come per gli stessi critici (di cui sottolineava la necessità alla vita stessa della poesia), una interpretazione intera da cui la forma traeva impronte e direzioni dalla loro concreta e storica umanità.

E d’altronde (anche questo è da ben affermare) l’autentica vocazione del metodologo non prevaricava sull’esercizio originale del critico e dello storiografo letterario; ché anzi non solo una caratteristica del Russo consiste proprio nel continuo, stimolante nesso e ricambio fra metodologia e critica, ma addirittura si può spesso cogliere l’origine di certi germi vivi di metodologia (in se stessa meno organizzata in un sistema tutto dispiegato e articolato e invece suggestivamente balenante in nozioni essenziali ed estremamente feconde) proprio nell’attrito (legge costante di questo maestro nella sua vita, nella sua cultura, nel suo campo specifico) con i testi, con i problemi critici e con le interpretazioni critiche altrui. Cosí, solo a fare minimi, ma ben importanti esempi (e quanto potrebbe ricavarsi dalla mole enorme dell’opera russiana), basti ricordare il caso della poesia foscoliana dei Sepolcri e della fulminea penetrazione nella interpretazione del crociano Citanna (che parlava di una insanabile scissione nei Sepolcri fra l’elemento idealistico poetico e quello freddamente materialistico e dunque la non unità del carme) per ricavarne la conclusione che anzi proprio quella scissione e dualità di temi son la molla che fa scattare la poesia del Carme e provocano la sua vera unità: col che emergeva anche il motivo di una unità per contrasto, di una unità dinamica, diversissima dalle ricerche di armonia e di unità di tipo distinzionistico postulate dalla piú vera scuola idealistica crociana e da quella, pur ben diversa, del purismo derobertisiano (e segno dunque di una concezione dello stesso storicismo nutrita da contrasti fecondi piú che da svolgimenti lineari); o, nel caso del Leopardi, l’incontro con la canzone Alla sua donna stimola la proposta di una «poesia della mente» in netta reale rottura della stessa nozione di poesia come intuizione-espressione del Croce, gettando cosí un importante germe di metodologia e di estetica che implica un ben diverso rapporto fra poesia e pensiero.

Si tratta di casi moltiplicabili e reperibili anche in zone cronologicamente lontane dello stesso finale sviluppo del Russo.

Sicché rotture ed elementi di crisi dell’idealismo e dei suoi sistemi estetici si trovano anche nei pieni e piú rigogliosi periodi della maturità russiana, e cosí la lezione o le lezioni, gli stessi sviluppi attuati e attuabili (anche attraverso metodi ed esercizi critici ulteriori, ma avviati dal suo insegnamento), non vanno colti solo in quella fase terminale dello sviluppo russiano, ma in tutta l’opera russiana, espressione di una personalità d’altra parte cosí potente e densa (e, se si vuole, anche prepotentemente originale) che alla luce di questa si devono comprendere anche quei casi – nella sua enorme aratura della letteratura italiana – in cui la sua interpretazione appare meno rinnovante, proprio perché meno congeniale alla raggiera del resto assai vasta della sua sensibilità e visione personale, alle sue vere e piú autentiche scelte, alla sua fondamentale e vigorosa tendenza.

Né vorrei almeno mancare di rilevare il modo ben suo e storico di intonare temi della sua critica e metodologica all’attrito (spesso ben doloroso e tutt’altro che olimpicamente storicistico-idealistico: la storia è, a ben vedere, anche per lui l’incubo joyciano della storia quando essa accentua l’orrore delle sue crisi) con avvenimenti storici e politici del suo tempo, si badi bene, fra le due guerre mondiali, in mezzo a grandiosi impeti rivoluzionari e feroci reazioni e il dopoguerra della minaccia atomica e del possibile disastro cosmico: in un’epoca di enorme tensione che non a caso ha prodotto in letteratura la grande poesia di Montale, solo per citare la cima di massimo livello, e la stessa generazione di grandi critici in cui si staglia la personalità di Russo. Cosí avviene dopo l’esperienza sofferta della prima guerra mondiale con il suo libro su Verga e quello pur giovanile già intitolato Il tramonto del letterato, cosí avviene nel caso del rapporto fra l’epoca dell’affermazione della dittatura fascista e gli studi su Machiavelli nella loro genesi anche fortemente polemica, contro l’illecita appropriazione di quel grande autore da parte del fascismo, cosí avviene in maniera anche piú vistosa, al momento della seconda guerra mondiale, con gli studi sull’Alfieri e particolarmente nella riproposta polemica del trattato alfieriano Del principe e delle lettere (che rilancia il valore di un’auctoritas esemplare per Russo: il letterato sprotetto e antigregale sempre avversario di tutte le corti e le accademie e dei letterati puri) o con il saggio sul Foscolo delle Grazie, sottratto alla interpretazione della poesia pura e frammentistica in forza del recuperato fondo della sua «politicità trascendentale», proprio sulla molla dell’analogia fra le imperialistiche guerre napoleoniche e la guerra nazista e il loro implicito orrore umano di guerre fratricide, o con la lettura trascinante delle canzoni patriottiche del Leopardi (e specie di quella Sopra il monumento di Dante) nella bruciante analogia ancora piú scoperta fra la campagna napoleonica in Russia e la tragedia, provocata dalla dittatura fascista, della gioventú italiana portata al disastro e allo sterminio nella folle partecipazione italiana all’aggressione nazista alla Russia sovietica che permetteva al Russo critico la riconferma dell’elegia e dell’agonismo leopardiano.

Con ciò che son venuto cosí sparsamente dicendo non si vuole proiettare Russo in avanti e fuori del suo contesto storico che tuttavia viene da lui fortemente forzato e immetterlo direttamente in forme di «attualità» immediata, ma (proprio centrando la sua posizione nel pieno dello svolgimento piú storicistico dell’idealismo e nella sua avviata rottura e crisi) se ne vuole riaffermare la vitalità (per riadoperare le parole di Montale) persistente entro la storia anche successiva alla sua personale scomparsa, la sua vitalità di maestro e quindi la vitalità dei suoi sviluppi e della sua lezione. Certo gli sviluppi possibili da parte di altri critici nel futuro son tutti opinabili e sospesi al movimento delle tendenze ed esigenze del gusto e della cultura e della storia cosí attualmente rapidamente mutevoli (si assiste attualmente in Francia ad un mal prefigurabile massiccio ritorno al Croce, cosa che meraviglierebbe soprattutto chi non ha fatto, a suo tempo, i propri conti esattamente con Croce e con la sua reale importanza), anche se molti di noi pensano che si imporrà pure una piú forte considerazione dello storicismo nella sua complessa realtà e contro tutte le proclamate sue miserie e sin morte della storia (che può purtroppo ben consistere semmai nella stessa morte dell’umanità!) e nella sua necessità e irrinunciabilità della sua sostanza di fondo. Anche se ovviamente su fondamenti ideologici e in contesti storici diversi da quelli del periodo in cui Russo operò. Mentre gli sviluppi accertabili son ben riconoscibili proprio nelle prospettive e nell’opera di quanti, suoi allievi diretti o indiretti, si trovano qui ad animare e a dar senso vitale a questo convegno, proprio nella varietà delle loro posizioni, ben diversa da quella compattezza di una specie di pecus russiano contro cui Russo del resto sarebbe insorto, maestro di necessaria diversità dei discepoli rispetto ai maestri, seppur non amante delle precipitose conversioni e dissacrazioni. Quanto alla lezione (o lezioni!), mi par che fra le tante valga anzitutto di essere qui ricordata e riproposta la centrale lezione di interpretazione storica, l’esempio di far storia e critica letteraria dentro la storia considerando il fatto poetico e letterario nella sua genesi e nella sua realtà storica senza perderne cosí i caratteri peculiari, ma anzi rinforzandoli (perché solo cosí se ne fa valere la qualità di forza autentica fra le forze tutte degli uomini), e poi quella connessa della necessità che il critico sia «uomo critico» di fronte ad «uomini scrittori» con la loro «umanità forma» che li rende partecipi, anche con la loro scrittura, alla letteratura di cui si occupano: anche per questo attori e non spettatori di letteratura e di storia, quali soprattutto devono essere per il loro impegno unitario nella specificità del loro servizio e nella realtà culturale e civile (naturalmente nei loro modi personali e in funzione corrispettiva ai loro ruoli di intellettuali storicamente concreti), essendo, nei loro modi e contesti e «limiti storici» diversi, letterati mai evasivi ed asettici, ma quanto piú provveduti di tecniche e di approcci, quanto piú rinnovati e rinnovabili (il dovere di un critico e di uno storico letterario, diceva Russo, è quello di rinnovare i propri canoni e criteri di giudizio), tanto piú capaci di far valere questi strumenti, per «leggere» gli autori e la storia letteraria in una prospettiva organica, centrale, non semplicemente tecnicistica o viceversa documentaristica.

E, poiché egli avversava (senza ciechi attivismi e vitalismi) i pigri e i velleitari programmatori di lavoro non svolto, una pur alta lezione proviene proprio dalla sua costante, incessante attività di lavoro, lezione che piú in generale si addensa in un profondo stimolo a non cessar mai di impegnarsi con responsabilità, a non cedere mai alla resa e alla rassegnazione (anche quando i tempi sono oscuri e lo stesso lavoro e l’impegno specifico appaiono assurdi ed inutili), com’egli fece, spesso persin disperato (ricordiamo ancora quella frase citata sul soggiorno a Marina di Pietrasanta: di fronte all’imminenza di un disastro inarrestabile!), ma mai rassegnato di fronte ad eventi e problemi e neppure di fronte a cambiamenti e successi di moda. Né, d’altra parte, orgogliosamente proteso in luciferina tensione dell’io, se poteva parlare, nell’introduzione del primo volume della sua Storia letteraria del 1957, dei limiti della sua mente (malgrado la consapevolezza della sua vasta angolatura e apertura), chiedendo che il lettore di fronte a parti e giudizi meno rinnovati di questa storia non chiamasse in causa «negligenza di preparazione e volontà» ma accusasse la sua mente, la sua conformazione mentale, i limiti dunque non solo storici, ma anche personali della mente (che pur egli riconosce come la «Chiesa del Dio vivente», con il verso del suo Manzoni, la Chiesa della sua religione laica e immanentistica).

E anche questa, se collegata a quella inerente ed essenziale dello strenuo dovere di lotta e di lavoro, mi sembra una severa e significativa lezione morale per dei produttori di cultura e di critica e ci riporta infine alle ragioni di fondo per cui, fra tante posizioni rinunciatarie e fughe mistiche e, peggio, fra tanto piccolo machiavellismo e degradazione della cultura a funzione utilitaristica, propagandistica, commerciale o industriale, consumistica e mercificante e alla fine troppo spesso personalistica, ricordiamo qui ed ora (come viva presenza stimolatrice e ammonitrice, come fonte di tanti fecondi stimoli al lavoro e all’impegno, come maestro di critica, storia letteraria, metodologia, di abito di lotta e di intervento non solo letterario, di vigore e rigore morale e intellettuale) Luigi Russo e, studiandolo ancora una volta con rinnovata volontà di meglio comprenderlo e trarne ancora feconde lezioni e sviluppi, vogliamo concretamente onorare in lui l’intero «uomo-maestro» di cui ci onoriamo di essere stati allievi ed amici, cercando di esserne, come sempre abbiamo cercato nei limiti delle nostre forze, in qualche misura pur degni[1].


1 Nel corso della pubblicazione di questo volume due delle persone da me ricordate come viventi sono purtroppo morte: Sara Russo, alla cui memoria rivolgo un pensiero profondamente reverente, e Sergio Antonielli, caro amico precocemente strappato alla vita, alla famiglia, al lavoro.